mercoledì 20 gennaio 2010


Macino pietro nel bimby perchè ieri mi hanno detto che sono ricca.
Oggi comincio a distruggere tutto perchè nulla ha un peso. A nulla siamo stati in grado di dare un nome.

Prada.

lunedì 7 dicembre 2009

Epistola n° 2, scritta di getto.

A,
abbiamo parlato spesso, conosco le immagini che disegni. E quella sera, il cui ricordo mi segue, ti ho detto qualcosa che penso: la bellezza è mutevole, e si fa goccia d'acqua, ci scivola tra le dita. La bellezza si nasconde agli occhi di chi guarda, li inganna: cercarla, trovarla è operazione laboriosa, complessa, spesso infruttuosa. Puoi scegliere, dunque, di non vederla, in attesa che sia lei, la bellezza, a colpirti con un guanto, a sfidarti a duello, nel deserto delle tue percezioni. Oppure (ed è la via che, a mio avviso, tu imbocchi) ricercarla continuamente in quello che ti circonda.
Questo però, mi dici, ti porta trasformare le persone in stanze buie, in cui ti addentri a tentoni: hai immaginazione e fantasia per dipingere a colori il nero in cui ti immergi, e lo fai istintivamente. Plasmi dunque bellezza dal vuoto e dal buio, con sabbia e tizzoni crei cristalli di vetro, e te ne adorni. E sei felice, perchè brilli alla luce.
Il cristallo però si frantuma, prima o poi cade ai piedi di chi lo possiede e va in pezzi. Le schegge tagliano le mani di chi cerca di raccoglierle, lasciano solchi profondi. E tutto è dolore, perchè il sangue stilla.
A., mi dici che le brutture ti assalgono improvvisamente, che ad un tratto ti prendono per i capelli, ti graffiano la faccia, ti trascinano a terra, nel fango; mi perdonerai se io non credo che sia così. Sono certo che tu afferri quanto di grottesco, di brutto, di volgare e di odioso esista nel mondo, nelle persone. Ma sai capovolgerlo, o capovolgi te stessa, tocchi la sabbia e la muti in cristallo. Il cristallo esiste, c'è perchè sei tu a crearlo e perchè tu vuoi che esista; il cristallo è parte di te. Plasmi dunque le persone a tua immagine, è la bellezza che è in te che diventa la loro bellezza. Quasi nessuno è cristallo, difficilmente le persone brillano: sei circondata da specchi, il cui fulgore è il tuo fulgore.
È per questo che non credo che tu sia sorpresa dalla mediocrità, quando questa ti assale: dall'inizio tu sai che stai mutando la sabbia in cristallo.
È un compromesso, il tuo, che ha un inizio ed un termine naturale, che non può essere alimentato all'infinito. Da qui la sofferenza: ti strappi la benda che hai sugli occhi e riveli a te stessa il tuo inganno, che pesa; è luce, improvvisamente. La luce acceca.

Cosa rimane, dunque, tra le tue mani? I segni dei tagli, il sangue secco, marrone, e poi?
Rimane la capacità straordinaria, che è tua, di creare la bellezza dal nulla. A., stai certa: la bellezza che plasmi con le mani, anche se è fatta di illusione, esiste. Non in sè per sè, certo, ma nell'effetto che questa ha su di te. Che è poi quello che ricerchi. E i problemi nascono e muoiono in te, che hai tutto tra le mani.
Cosa fare, mi chiedi, cosa fare della delusione, delle nausee, di quelli che chiami fallimenti?
Dall'inizio tu sai, come ti dicevo, comprendi il valore reale delle cose: la tua delusione è dunque un male che non esiste, un male che ha radici nel niente.
Un male, A., che però percepisci nitido: è dunque possibile soffrire un male inutile?
È possibile, sì. A patto di essere artisti: è la tua arte a nutrirsi di tormento.
Ho detto tutto, forse.

Epistola n°2 (da camera mia col pigiama, ma scritta ieri in faccia al camino a casa di mia nonna. No, non puzzo di fumo.)






Caro peppe,
quella sera che mi accompagnasti a casa, quella sera, insomma, che volevi schiacciarmi le gocce di pioggia sul cappotto (come mi dicesti poi) parlammo, come quasi sempre, delle percezioni, delle reti attorno al cuore, delle persone,degli occhi.
E ti parlavo, io lo so, io parlo troppo. A volte dovrei trattenermi. Mettere meno voce in gioco, meno fiato, perdere meno pezzi. Dopo le epifanie improvvise, lo vedi, rimango sempre monca. Ma ho una buona struttura fisica, sono forte, dicono. Per cui rimango sempre in piedi, dicono. Come i gatti, pensa. Quindi parlavamo delle persone, delle cose che io faccio con le persone.
E ricordo precisamente che a un certo punto mi hai fermata con i palmi delle mani aperti e mi hai detto: ma forse, non vorrei insistere, eh, ma forse ci pensi che magari le persone...che l'essere umano, che forse ti sbagli, che magari non sono intelligenti come tu vorresti che fossero? Ci pensi che non sono belli come tu vorresti vederli?
E quindi questa tua domanda l'ho recuperata sabato sera dopo le dieci, l'ho riascoltata e me la sono appesa al collo.
Do un peso a tutto, a volte questo peso mi finisce sulle spalle. Io mi stanco.
E mi stanco anche a raccontarle le cose che mi stancano, che mi sfiniscono. Quindi non posso difendermi. NOn lo farò nemmeno adesso e non l'ho mai fatto perchè non sono in grado di muovere per troppo tempo lingua e bocca.
Io non ci sono, non ora. Non per come mi si vede. Non adesso, ecco. Ho un'idea troppo alta dell'umano e dei cuori e degli occhi. A questo punto, vi prego, non mi toccate i fianchi.
Li vorrei tutti puliti, col sapore di sapone.
Vorrei che fossero capaci di salvarsi, ecco.
Poi le cose si vivono, le persone si guardano, le cose si realizzano.
In questo io fallisco perchè non vedo bene.
E non è perchè, come ti chiedevi qualche giorno fa, sono affrettata nei giudizi. è solo la pancia. A volte non ragiono, non mi ascolto bene. Mi rifiuto di vederle quelle cose fastidiose che mi creano disagio e imbarazzo di fronte al mio interlocutore e dico: no, non è niente e così passano gli anni e all'improvviso la bruttura ti salta in faccia, ti rovina il sorriso e non recuperi più niente.
Perchè lo faccio? E perchè non farlo, peppe?
Quella che io ,stracciandomi i vestiti, rincorro è un' immagine ideale della vita. Ma qui attorno a me, lo vedi pure tu, si agita il reale nella sua forma più oscena e io dove posso nascondere la faccia?
Basterà mettermi le mani in tasca e camminare a testa bassa?
è questo che mi stanca.
Questo non riuscire mai per davvero a far entrare nessuno e quando ci riesci (come nel caso di una persona che ha una voce che mi suona splendida e che io e lui ci teniamo lontani perchè poi si muore affogati nelle cose che si sgonfiano, tu vedi che razza di discorsi e dimmelo se non sono veri, tanto non ti crederò, permettimelo)
Io chiudo le porte e mi spavento per il rumore troppo forte.
E mi nauseo, peppe, io mi nauseo ancora per le incoerenze, per le brutture, per come certi corpi si sfasciano, per le tinture, per i trucchi, per la grossolanità di certi gesti, di certi ascolti, per ligabue, per come certe cose avrei potuto prevederle, per la mediocirà, mi nauseo per l'ingenutià che non è ingenuità. L'ingenuità pura è bellissima:è Goethe che chiama la donna ideale Carlotta.
Non chi non riesce a correre per salvarsi. Quello è uno stato di comodo e io mi voglio mettere le mani davanti agli occhi.
Pensaci, pensaci a sta gente che non sa muoversi.
Io per questo fallisco.
Questa è la mia incapacità.
Ma è davvero soltanto mia?
Ecco, questo voglio contestare oggi. E per questo non mi difendo. dai mostri non ci si difende. I mostri si lasciano appassire.
Avevo solo bisogno di dirti che chi nasce tondo non muore quadrato. Solo questo. Poi torno a scrivere altre cose.

giovedì 26 novembre 2009






Il bambino è qui. Fermo, rannicchiato in una teca di vetro. Punta il dito verso nord. Quando lo libero il mio bambino si dirige a grandi passi verso il ripiano della libreria dove ho sistemato Pentothal. è di Paolo Pentothal, gli dico. Lo prende. Lo bava. Lo guardo, è quasi un cane.
Il bambino sono ore che non mi chiede dov'è suo padre mi sembra l'occasione giusta per avvicinarlo a me, alla mia pancia, al mio calore e tagliargli le unghie, sfoltirgli la coda.
Sono tornata, amore, solo per questo.

domenica 15 novembre 2009

L'infermiere sedeva in un angolo, in silenzio. Teneva in mano un brutto orologetto d'argento, probabilmente una vecchia bomboniera coperta di polvere, raccolta dal ripiano della cassettiera. Esaminava l'orologio, rigirandolo tra le mani; prese un fazzoletto di carta dalla tasca del camice, lo spolverò, lo posò al suo posto, accanto alla cornice.
L'odore di crema per le mani e vecchio legno che si respirava nella stanza gli era familiare, era ormai quasi un mese che frequentava quella casa. La vecchia era in coma, senza speranza, ma la sua famiglia si ostinava a pagarlo profumatamente per cambiarle ogni giorno le medicazioni alla testa. Aveva subito un intervento al cervello, le era stato rimosso un tumore. Grosso come una palla da tennis, gli aveva raccontato l'ingegnere, il marito dell'unica figlia della donna.
La stanza era in penombra; attraverso le ante socchiuse un filo di luce si faceva strada, colpiva la sacca della flebo creando riflessi di una strana iridescenza. La vecchia, coperta da un lenzuolo leggero, aveva il naso aquilino, e radi capelli scuri.
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Anche i capelli di sua figlia erano radi e scuri; sua moglie aveva partorito pochi mesi prima. Alla vista della bambina, subito dopo il bagnetto, l'infermiere si era sorpreso di quanto un neonato potesse essere brutto, orrendo. Non comprendeva l'estasi di sua madre e di sua suocera, nè la gioia che irradiava dagli occhi di sua moglie: quell'esserino insignificante che reggeva tra le mani, impacciato, lo disgustava. Le piccole mani, su cui risaltavano evidenti le vene azzurrine, artigliavano il crocifisso d'oro che portava al collo, ricordo della prima comunione; la piccola urlava, sembrava comprendere i suoi sentimenti, lucidamente. Si sorprese a riflettere su quanto facile potesse essere, per lui, schiacciare discretamente la testolina olivastra contro il muro, ridurla ad una poltiglia sanguinolenta. L'infermiere era rimasto atterrito da quei pensieri, dall'idea della paternità. I giorni, però, avevano mutato quelle prime confuse emozioni in un senso di responsabilità feroce nei confronti della bimba. Questo doveva essere l'amore paterno, aveva dedotto. E aveva amato sua figlia così, responsabilmente.
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L'infermiere si alzò, si avvicinò al letto. Sistemò l'ago nella vena della vecchia, sul polso ossuto; aveva grosse mani, con le nocche irte di piccoli peli scuri, e le unghie rose. Mani stranamente delicate, rispettose del male. L'infermiere era forte, e ancora giovane a dispetto della precoce stempiatura; sbadigliò, doveva andare a casa.
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Il lutto è rumoroso, la morte è silenziosa. Prima di entrare piano nella stanza, Enrica si sfilò le scarpe scure ed eleganti, sapientemente abbinate al tailleur grigio, e indossò un vecchio paio di ciabatte da mercatino. Nella penombra, la colpì il raggio di sole che entrava dalla finestra, illuminando di riflessi metallici la sacca della flebo. Quella luce le parve sconveniente, nella stanza di un moribondo; accostò piano le ante di legno e accese l'abat jour sul comodino. L'ombra che l'infermiere, intento a riporre i suoi strumenti nella borsa, proiettava contro il muro, si ingigantì improvvisamente.
Sedette sul pavimento, accanto al letto; prese la mano inerte di sua madre, la strinse con forza.
Il dito indice della donna morente era completamente rigido, a differenza delle altre dita, che potevano piegarsi normalmente. Da bambina, portando sul capo un vaso di vetro, era infatti inciampata, e nella caduta si era tagliata profondamente la mano con una scheggia appuntita. Un medico di paese aveva sottovalutato l'incidente, non avvedendosi dell'avvenuta rottura di uno dei tendini della bambina; così il dito le era rimasto offeso, e si era in seguito atrofizzato. Era un dito da pianista, sottile ed affusolato, che contrastava con la ruvidezza contadina della mano; quando la donna impastava l'acqua con le uova e la farina, il suo dito indice rimaneva sollevato, rigido, senza sporcarsi; sembrava indicare Enrica che guardava attenta, rapita dalla perizia culinaria di sua madre.
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Enrica aspettava che sua madre morisse. Sapeva che sarebbe stata sollevata, quando questo fosse accaduto; era un medico, comprendeva il dolore di un ammalato. Enrica attendeva, con l'ansia sottile ed impotente di chi aspetta un autobus in ritardo. Desiderava oltre ogni cosa che il suo strazio finisse; quasi inconsapevolmente, arrivava ad augurarsi la morte di sua madre. La sofferenza per una perdita è attenuata dalla rassegnazione, ma l'infinito dilatarsi di quegli ultimi rantoli liquefaceva quella morte, che le stillava in bocca lenta e acre, goccia dopo goccia. Enrica era costretta a pregare per un miracolo che, lo sapeva, non sarebbe avvenuto.
Doverosamente, si era aggrappata alla speranza, come a fili d'erba secca; ogni giorno metteva in scena la speranza, trascorreva ore seduta ai piedi del letto di sua madre ad ascoltare il rumore dei suoi respiri. Ormai quella stanza le era insopportabile, quell'odore di mobili vecchi e crema Nivea la disgustava. Continuava a rimanere al capezzale della donna morente, stoicamente, perchè era quello che le persone che la circondavano, e la compativano, si aspettavano da lei.
Durante i pomeriggi trascorsi nel buio, stringendo quelle mani fredde, Enrica aveva immaginato il suo lutto per la morte della madre. I vestiti sobri, il nero portato con dignità, il funerale discreto, nella stessa chiesetta che sua madre aveva frequentato per tanti anni, in prima fila accanto a suo marito, il cordoglio sincero dei parenti. Enrica sarebbe stata il centro della solidarietà, si sarebbe immersa nel mare di melassa del compatimento. Si sarebbe nutrita di pietà, barattando il dolore con l'affetto delle persone a lei care, scambiando la morte con la vita, credeva. Si sarebbe aggrappata alla vita con forza, Enrica, e al tempo che passa e si scioglie come il ghiaccio.
Forse avrebbe cercato di avere un bambino, magari una bambina a cui imporre il nome di sua madre.
Sicuramente avrebbe lasciato Mauro, il giovane internista con cui da circa un anno aveva una relazione, e che adesso la stava aspettando a casa sua.
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Mauro si era fatto una doccia, ed era rimasto in accappatoio. Era un uomo di aspetto gradevole, nonostante la pancia un po' troppo prominente. Enrica, la collega con cui aveva una relazione, era in procinto di arrivare. Era al capezzale di sua madre morente; aveva un cancro, credeva.
A suo modo, Mauro voleva bene ad Enrica. Era una brava donna, ancora piacente nonostante avesse già superato la quarantina, e un valido medico. Soprattutto, era un'amante fantasiosa e discreta. Nessuno dei colleghi e degli infermieri che lavoravano presso il loro ospedale sospettava che avessero una relazione; questo era essenziale per un giovane brillante, che di lì a qualche anno avrebbe concorso per la carica di primario, forte dell'appoggio di alcuni consiglieri regionali.
Si guardava allo specchio con intensità, gonfiò i bicipiti; era indeciso se radersi o no la barba. Decise che si piaceva. Alla radice del naso aveva un capillare evidente, rosso scuro.
Suonò il citofono, Mauro aprì il portone. Era Enrica.
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Erano a letto, bagnati del sudore di Mauro. Il cellulare di Enrica squillò; era lontano, perso nella borsa dimenticata da qualche parte in salotto. Non si alzò per rispondere, chiuse gli occhi; era nuda e appagata. E sapeva, non voleva sapere.

martedì 10 novembre 2009

Epistola N° 1, senza scopo nè fantasia

A.,
sono qui, devo ancora disfare i bagagli. Ho sonno, e non credo di stare realmente male; so che adesso mi piacerebbe schiacciare con le dita le gocce di pioggia contro il tessuto del tuo cappotto nero.
Quando mi parli non ti guardo negli occhi: di solito fisso la tua bocca, le labbra che si schiudono e mostrano i denti. Guardo le mani che si muovono, che comunicano chiaramente ciò che tu vuoi dirmi, o rivogo lo sguardo in avanti, con gli occhi fissi.
Ieri sera guardavo attraverso il vetro appannato, tu no. Tu guardavi me. Mi descrivevi la forza che ho, la tua debolezza. La foza di praticare un distacco terapeutico, di sgranare la vita come un melograno maturo, senza sporcarmi mai. La forza di unire puntini luminosi con la punta in grafite di una matita, con tanta calma, senza dolore. La forza di non ricominciare perchè forse non si è mai iniziato veramente.
A. (non ti scrivo "cara A.", per una forma infantile di pudore, o forse perchè la simbiosi di quest'ultimo periodo ti rende, nello scuro che è mio, non cara, ma splendidamente immotivata, intensa, inattesa e per questo più importante), questa non è forza d'animo.
La forza sta nella ricerca continua, nel tentativo, nelle braccia dischiuse e nella pioggia che in questi due giorni ci ha visti camminare, parlare. La forza che, realizzo adesso, è riuscita a tracimare dai suoi argini, a portare anche me con i suoi detriti, il fango denso e le foglie con cui anni fa giocavo in giardino. La forza che hai ti ha permesso di costruire un rapporto, e poi coinvolgere me, bendarmi con un filo di seta sottile e farmi girare veloce, fino a cadere e ridere, illudendomi forse di star ridendo insieme a te. E sono tuo amico, provo un affetto facile ed insolito adesso, un affetto bianco e azzurro pastello. Mi specchio in te, disegno nell'aria quello che mi racconti, con tratto a volte sicuro.
Ci sei tu, è vero. E ci siamo tutti, al di là delle facili accuse con cui qualcuno ti seppellisce. Ma il tuo mondo non si esaurisce in te, questo è evidente. Risulta evidente dalle tue domande, che si legano l'una all'altra e diventano risposte al tuo interrogarti sulle persone che ti circondano. Ti farai male, ed io no: ma si cresce attraverso il dolore, la stasi porta a rigirarsi su sè stessi come i lombrichi infilati sugli ami e poi lanciati in acqua. È semplice essere un lombrico, nuotare restando aggrappati ad un filo; tu sei complicata e completa, nella tua indefinitezza sei un tramonto rosso e rosa, e come tale ti spegni e ti riaccendi, incanti.
Saliamo su di una cima, ci sediamo; mi sporco, mi sbuccio un po' il ginocchio e mi lamento. Guardiamo in avanti, non nella stessa direzione però. Esisti, perchè è così e perchè io voglio che sia così. Del resto non m'importa, anche se credo che importi a te. I capelli ti coprono l'occhio sinistro.
Parliamo, viviamo un po'. Basta così.

domenica 8 novembre 2009

Epistola n°1










Caro Peppe,
sono qui al corso di filosofia del linguaggio e seguo il tutto molto distratta. oggi è il mio primo giorno di università, ma mi sono svegliata tardi, pertanto considero anche questo giorno come un fallimento del mio progetto di rieducazione di me stessa. Comincerò quindi domani. Dunque rettifico: oggi non è il mio primo giorno di università, oggi non è niente. oggi è solo un giorno che piove.
Ieri, ma come anche l'altro ieri ( che poi non lo so collocare precisamente in una data stabile che ci dica qualcosa) parlavamo della gente, della percezione.
Ti dicevo di un pensiero, di una considerazione, di un giudizio sulla mia persona che è arrivato come una scarica di grandine sulla mia schiena nuda e magra. Ma è effettivamente magra la mia schiena? Posso dirlo io da sola? Chi potrà confermare questa mia valutazione?
Caro Peppe,
sono anche un pò stanca e poi io non lo so più come funzionano le cose, i fatti, gli eventi, le persone. Sono tutte cose. puoi prenderle, mettertele in bocca, bavarci sopra, toccarle, sentirne il sapore, perderle. Puoi perderle, le cose.
E qui attorno a me (ma poi ci pensi che sto scrivendo su un quadernone e dopo quando tornerò a casa,riscriverò tutto sul blog affinchè tu lo legga, affinchè tutto si perda?) qui le persone parlano. ogni tanto mi arriva in faccia lo sputo di una parola che non capisco, di nomi che non mi appartengono che mi dicono solo: qui non è niente, non è ancora niente.
Io non credo che la vita scorra, io credo nei singhiozzi del momento, nei singulti e nei riverberi che continuano. nelle stanze che tremano, nella letteratura che non significa niente.
Io dico un sacco di volte io, lo so. Ma qui mi sembra che ci sia solo questo io e non significa che io sia concentrata solo su me stessa, che io guardi solo me. Ma hai idea di quanto poi pesino queste parole sui cuori, sulle spalle, sulla pancia?
Io ci sono, no? tu pure, mi pare e chiunque altro, anche se poi c'è chi crede il contrario e si tira le coperte fino alla testa per non vederlo il buio quando la madre entra un attimo in camera e dice buonanotte, amore e poi chiude la porta con un tonfo che fa tintinnare i denti. E quindi se ti metti le mani tutte e due sulla pancia, senti quel gorgoglio di vita che a volte fa paura. fa paura il pensiero: ma che c'è dentro? E quanti mostri si muovono simultaneamente?
Ci pensi mai? Ci pensi, dico, alla gente, a quanti le mani sulla pancia non le poggiano mai?
E lasciamo stare, per cortesia, le madri e i gigli e le canzoni degli stadio che partono dal mio materasso la notte sul tardi ed è in quel preciso istante che io comincio a tremare. E sono ancora capace di fare dell'ironia.
Quindi, tralasciamo per un secondo anche le citazioni da De Andrè che le recupereremo poi.
Per il momento, ecco, facciamo conto che si salga su una cima, ci si metta seduti scomodi.
E si guardi poi da qualche parte.
Mi pare che io esisto nella misura in cui il vento ha ancora la forza di graffiarmi la faccia.
Come al solito non ho detto niente perchè da giorni, lo sai, non ho fame.
E questo è quanto.
me ne vado, apro l'ombrello.
Semplicemente ho sulla faccia la bombetta di Charlot perchè nemmeno oggi ci volevo essere.
E dico sempre le stesse cose, ma la notte continua a piacermi, le telefonate, la sua voce lontana che mi sa di vendemmia e bambini coi piedi nel mosto.
Sono quelli i momenti in cui mi sento viva e m'addormento poi.
Domani.
ora oggi, delle cose, per cortesia, peppe, parliamone.

martedì 3 novembre 2009

Cipolle/distrazioni








Quindi le cose vederle, soffiarci dentro da un punto troppo in alto, descriverle a un cieco, guardarle da lontano, sai bene che non è poca cosa, ma nemmeno è facile respiare così. Lei è molto più forte. Lei è molto meglio.
Non voglio sorprenderti con le mani nella marmellata, ma auspico a qualcosa di simile, qualcosa che non ci piacerà raccontare in giro e di cui potremo ridere solo io e te quel giorno che deciderai di chiudere la porta e prenderti le mie scarpe per lucidarle, trattarle con cura. Sai bene che da sola non sono capace di poggiare i piedi a terra.

martedì 27 ottobre 2009







Oggi l'amore sono io che guardo in alto da sola.

domenica 25 ottobre 2009

Streghe








Alla fine non è che non ho avventure, la vita, volendo, se non ci penso, se non le chiedo niente, travolge anche me in qualcosa di memorabile, encomiabile e tutte quelle belle cose di cui alla fine ci piace parlare tenendoci le mani, così, per sentirci umani e più capaci di guardarci negli occhi. quando per inerzia ci troviamo seduti- come capita quasi ogni giorno- al tavolino dello stesso bar il cui servizio non ci soddisfa mai. Il punto è, come provo a dirti quasi tutte le notti, che camminando in quelle strade spesso non riesco ad inciampare, a spezzarmi un tacco o semplicemente a rimanere bloccata con la schiena. Nemmeno l'asma mi sorprende in quelle lande, nonostante quell'aria selvaggia mi pizzichi e mi violenti i polmoni con l'arroganza tipica di quei posti. Quell'arroganza che non sa argomentare e vuole solo agire che pure è bello, ma tu lo sai, io sono delicata quando me lo ricordo.
nell'insignificanza del tutto mi manca quasi la paura di restarci sotto. [Certe volte a mezzanotte e mezzo.]

sabato 24 ottobre 2009

Alla fine io credo che a guardare e a guardarsi non tutti siamo capaci e gli specchi non si rompono poi sempre.
Scuse banali
non siamo in un testo che poi canterà mina.


I capelli è bene - talvolta- lasciarli sciolti.

domenica 18 ottobre 2009

Non si aspetta mai volentieri, a trent'anni, ma Fabio aspettava da quasi quattro ore. Il tempo aveva ormai assunto la consistenza granulosa dello zucchero, e gli si cristallizzava tra le dita, diventava un'entità tangibile. Ormai anche l'ansia di quell'attesa si era dissolta: rimaneva lo scorrere dei minuti.
Si alzò, camminò verso la finestra e guardò fuori, nel parcheggio. Le luci dei lampioni erano fioche, già albeggiava. Ebbe uno spasmo, il braccio sinistro gli si contrasse. Guardò l'orologio, quattro ore. Suo figlio sarebbe nato di lì a poco.
Aprì la porta della sala d'attesa, e mise il capo fuori. Per la prima volta quella notte, ebbe la chiara percezione di trovarsi in un ospedale; avvertì la sofferenza di sua moglie, la pena delle contrazioni. Fu una sensazione fisica, spiacevole. Si stropicciò gli occhi, e posò lo sguardo su un'infermiera di mezza età, una donna in carne, che reggeva in mano una rivista aperta. Era sola, e gli sorrideva.
Tornò sui suoi passi, sedette di nuovo. Valutò l'ipotesi di telefonare a sua suocera, ma era molto presto, e comunque Paola gliel'aveva vietato.
La porta si schiuse, l'infermiera che prima gli aveva sorriso entrò nella stanza. Reggeva in mano un vassoio di plastica blu, su cui aveva appoggiato una moka fumante e un pacco di bicchieri di plastica. Fabio guardava quel vassoio, su cui distinse chiarissimo il marchio di una bevanda frizzante, e ripensava ai giorni precedenti al suo matrimonio.
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Lui detestava quel vassoio, Paola lo desiderava ad ogni costo. Era d'argento sottile, rettangolare, freddo ed anonimo; Paola aveva insistito per inserirlo nella lista di nozze, contro il suo parere. Sin dall'inizio, da quando i preparativi per il matrimonio erano cominciati, Fabio aveva deciso di disinteressarsi totalmente ad essi. Seguiva passivamente Paola o sua suocera quando questo era strettamente necessario; la compilazione della lista di nozze era uno di quei momenti. Paola esaminava soprammobili ed elettrodomestici con occhi che volevano essere esperti, ogni tanto si lanciava in brevi annotazioni sul design degli oggetti, che tradivano la sua totale incompetenza. Fabio la seguiva passivo, ogni tanto annuiva placido, completamente disinteressato. Il vassoio attirò la sua attenzione prima che quella di Paola, brillava sotto le luci elettriche. Posò lo sguardo su di esso, e seppe che l'odiava, di un odio irrazionale e per questo più violento. Ovviamente Paola fu irremovibile: doveva averlo, lo ebbe.
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L'infermiera gli riempì il bicchiere di caffè; bevve. Il caffè era bollente e così dolce da essere disgustoso. Chiuse gli occhi, la stanchezza e le ore si dissolsero. Sentì l'infermiera che beveva rumorosamente il caffè caldo; era ancora in piedi, aveva appoggiato il vassoio su una sedia.
Fabio la guardava: aveva un'aria amichevole, da brava donna di casa. Si rese conto che doveva essere più alta di lui di almeno un palmo, ma non provò disagio; aveva dei seni enormi, compressi da una camicetta scura e lisa, perfettamente visibile sotto il camice aperto. Portava la fede, e doveva avere dei figli: una donna del genere ha sempre dei figli. Magari una femmina, che di domenica le tingeva i capelli di quel rosso – supermercato, che lasciava intravedere l'attaccatura nera.
L'infermiera sedette accanto a Fabio: non portava orecchini, solo una catena d'oro, e non era truccata. Si presentò, si chiamava Roberta. Il suo fiato era caldo, e sapeva di caffè: un odore forte, stranamente rassicurante.
Gli occhi di Fabio si posarono sulla generosa scollatura della donna: lei gli parlava della sua prossima paternità. Le sue labbra erano schiuse in un sorriso malizioso, l'infermiera aveva notato i suoi sguardi. Fabio si vergognò, ma non riuscì a distogliere gli occhi. Roberta si accarezzò il petto con una mano, poi con l'altra.
Non c'era spazio per i pensieri nella mente di Fabio: quel seno la riempiva, lo riempiva con la sua presenza morbida. Mosse impercettibilmente una mano, immaginò di toccarlo; ne sentì la consistenza, avvertì il pulsare della carne viva mentre la donna parlava.
Passi pesanti alle sue spalle, la porta si aprì bruscamente. Era in pace, suo figlio stava nascendo. Si sarebbe chiamato Davide, come il nonno materno.
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Non si aspetta mai volentieri a dieci anni, e Fabio non avrebbe aspettato. Erano appena giunti ad Acciaroli per trascorrere le vacanze estive nella vecchia casa di pescatori che prendevano in affitto ogni anno, e lui voleva andare in spiaggia con suo fratello Matteo. Il viaggio in auto gli era sembrato come al solito lunghissimo, ed ora desiderava solo percorrere la scalinata scoscesa, scavata a mano nelle rocce, che conduceva alla spiaggetta sottostante.
I quindici anni di Matteo avevano portato nuovi amici, e i primi amori; trascinò con sè suo fratello malvolentieri, affidandolo a Paolo, un suo coetaneo, mentre si appartava con alcuni ragazzi e ragazze, ansioso di ricucire uno strappo lungo un anno.
Paolo era l'unico tra i suoi amici ad essere figlio di pescatori: era tollerato perchè parlava poco, non avvicinava le ragazze e conosceva le spiagge del paese come nessun altro. Era molto alto, con il fisico atletico e uno sguardo poco sveglio. Peli precoci gli coprivano il petto e le gambe, conferendogli un aspetto adulto che lo rendeva diverso dagli altri ragazzi.
Fabio ammirava Paolo: sembrava un uomo, ed era tra tutti il miglior pescatore di ricci e patelle. Guardava il ragazzo tuffarsi dallo scoglio più alto, con eleganza, ed emergere con conchiglie o sassi nelle mani; immaginava il suo corpo che si inarcava nell'acqua scura, teso nello sforzo di raggiungere il fondo.
Paolo gli si avvicinò, gli chiese se si stesse annoiando. Aveva un accento strano, diverso da quello che gli era familiare. Lasciò cadere distrattamente sul suo telo da mare un frammento di bottiglia verde levigato dal mare, raccolto dal fondale nell'ultima immersione.
Fabio disse che non si annoiava, mentre guardava il riflesso del sole che si rifletteva nel pezzo di vetro; il giovane lo prese per mano, in silenzio. Lo condusse a nuoto verso lo scoglio alto, su cui si arrampicarono entrambi senza difficoltà; gli disse di tuffarsi, bruscamente. Fabio aveva paura, ma non volle deluderlo: deglutì, si tuffò.
L'impatto con l'acqua non fu violento come si aspettava, ma la tensione aveva irrigidito i suoi muscoli. Non riuscì a tenersi a galla, bevve acqua salata; le mani forti di Paolo lo sorressero. Il ragazzo lo portò in spiaggia, al riparo in un anfratto in cui la luce forte del sole filtrava appena, tenue, e gli chiese se avesse avuto paura. Fabio piangeva in silenzio, lo abbracciò; affondò la testa nel suo stomaco piatto, irto di peli come quello di suo padre. E fu strano, e fu bello per lui sentire un calore mai provato prima, che irradiava tra le sue gambe e sferzava, potente e lieve a un tempo, tutto il suo corpo. Non aveva più paura, ma il fiato era mozzo in gola; era in pace.

giovedì 15 ottobre 2009

Principio sì giolivo ben conduce

Aleister Crowley scrive:
alla fine questo blog non condurrà a niente
è cazzo che ce lo leggeremo solo noi
come quei vecchi sposati da una vita che non chiavano, però si leggono lo stesso giornale
tale e quale proprio va a finire