martedì 27 ottobre 2009







Oggi l'amore sono io che guardo in alto da sola.

domenica 25 ottobre 2009

Streghe








Alla fine non è che non ho avventure, la vita, volendo, se non ci penso, se non le chiedo niente, travolge anche me in qualcosa di memorabile, encomiabile e tutte quelle belle cose di cui alla fine ci piace parlare tenendoci le mani, così, per sentirci umani e più capaci di guardarci negli occhi. quando per inerzia ci troviamo seduti- come capita quasi ogni giorno- al tavolino dello stesso bar il cui servizio non ci soddisfa mai. Il punto è, come provo a dirti quasi tutte le notti, che camminando in quelle strade spesso non riesco ad inciampare, a spezzarmi un tacco o semplicemente a rimanere bloccata con la schiena. Nemmeno l'asma mi sorprende in quelle lande, nonostante quell'aria selvaggia mi pizzichi e mi violenti i polmoni con l'arroganza tipica di quei posti. Quell'arroganza che non sa argomentare e vuole solo agire che pure è bello, ma tu lo sai, io sono delicata quando me lo ricordo.
nell'insignificanza del tutto mi manca quasi la paura di restarci sotto. [Certe volte a mezzanotte e mezzo.]

sabato 24 ottobre 2009

Alla fine io credo che a guardare e a guardarsi non tutti siamo capaci e gli specchi non si rompono poi sempre.
Scuse banali
non siamo in un testo che poi canterà mina.


I capelli è bene - talvolta- lasciarli sciolti.

domenica 18 ottobre 2009

Non si aspetta mai volentieri, a trent'anni, ma Fabio aspettava da quasi quattro ore. Il tempo aveva ormai assunto la consistenza granulosa dello zucchero, e gli si cristallizzava tra le dita, diventava un'entità tangibile. Ormai anche l'ansia di quell'attesa si era dissolta: rimaneva lo scorrere dei minuti.
Si alzò, camminò verso la finestra e guardò fuori, nel parcheggio. Le luci dei lampioni erano fioche, già albeggiava. Ebbe uno spasmo, il braccio sinistro gli si contrasse. Guardò l'orologio, quattro ore. Suo figlio sarebbe nato di lì a poco.
Aprì la porta della sala d'attesa, e mise il capo fuori. Per la prima volta quella notte, ebbe la chiara percezione di trovarsi in un ospedale; avvertì la sofferenza di sua moglie, la pena delle contrazioni. Fu una sensazione fisica, spiacevole. Si stropicciò gli occhi, e posò lo sguardo su un'infermiera di mezza età, una donna in carne, che reggeva in mano una rivista aperta. Era sola, e gli sorrideva.
Tornò sui suoi passi, sedette di nuovo. Valutò l'ipotesi di telefonare a sua suocera, ma era molto presto, e comunque Paola gliel'aveva vietato.
La porta si schiuse, l'infermiera che prima gli aveva sorriso entrò nella stanza. Reggeva in mano un vassoio di plastica blu, su cui aveva appoggiato una moka fumante e un pacco di bicchieri di plastica. Fabio guardava quel vassoio, su cui distinse chiarissimo il marchio di una bevanda frizzante, e ripensava ai giorni precedenti al suo matrimonio.
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Lui detestava quel vassoio, Paola lo desiderava ad ogni costo. Era d'argento sottile, rettangolare, freddo ed anonimo; Paola aveva insistito per inserirlo nella lista di nozze, contro il suo parere. Sin dall'inizio, da quando i preparativi per il matrimonio erano cominciati, Fabio aveva deciso di disinteressarsi totalmente ad essi. Seguiva passivamente Paola o sua suocera quando questo era strettamente necessario; la compilazione della lista di nozze era uno di quei momenti. Paola esaminava soprammobili ed elettrodomestici con occhi che volevano essere esperti, ogni tanto si lanciava in brevi annotazioni sul design degli oggetti, che tradivano la sua totale incompetenza. Fabio la seguiva passivo, ogni tanto annuiva placido, completamente disinteressato. Il vassoio attirò la sua attenzione prima che quella di Paola, brillava sotto le luci elettriche. Posò lo sguardo su di esso, e seppe che l'odiava, di un odio irrazionale e per questo più violento. Ovviamente Paola fu irremovibile: doveva averlo, lo ebbe.
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L'infermiera gli riempì il bicchiere di caffè; bevve. Il caffè era bollente e così dolce da essere disgustoso. Chiuse gli occhi, la stanchezza e le ore si dissolsero. Sentì l'infermiera che beveva rumorosamente il caffè caldo; era ancora in piedi, aveva appoggiato il vassoio su una sedia.
Fabio la guardava: aveva un'aria amichevole, da brava donna di casa. Si rese conto che doveva essere più alta di lui di almeno un palmo, ma non provò disagio; aveva dei seni enormi, compressi da una camicetta scura e lisa, perfettamente visibile sotto il camice aperto. Portava la fede, e doveva avere dei figli: una donna del genere ha sempre dei figli. Magari una femmina, che di domenica le tingeva i capelli di quel rosso – supermercato, che lasciava intravedere l'attaccatura nera.
L'infermiera sedette accanto a Fabio: non portava orecchini, solo una catena d'oro, e non era truccata. Si presentò, si chiamava Roberta. Il suo fiato era caldo, e sapeva di caffè: un odore forte, stranamente rassicurante.
Gli occhi di Fabio si posarono sulla generosa scollatura della donna: lei gli parlava della sua prossima paternità. Le sue labbra erano schiuse in un sorriso malizioso, l'infermiera aveva notato i suoi sguardi. Fabio si vergognò, ma non riuscì a distogliere gli occhi. Roberta si accarezzò il petto con una mano, poi con l'altra.
Non c'era spazio per i pensieri nella mente di Fabio: quel seno la riempiva, lo riempiva con la sua presenza morbida. Mosse impercettibilmente una mano, immaginò di toccarlo; ne sentì la consistenza, avvertì il pulsare della carne viva mentre la donna parlava.
Passi pesanti alle sue spalle, la porta si aprì bruscamente. Era in pace, suo figlio stava nascendo. Si sarebbe chiamato Davide, come il nonno materno.
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Non si aspetta mai volentieri a dieci anni, e Fabio non avrebbe aspettato. Erano appena giunti ad Acciaroli per trascorrere le vacanze estive nella vecchia casa di pescatori che prendevano in affitto ogni anno, e lui voleva andare in spiaggia con suo fratello Matteo. Il viaggio in auto gli era sembrato come al solito lunghissimo, ed ora desiderava solo percorrere la scalinata scoscesa, scavata a mano nelle rocce, che conduceva alla spiaggetta sottostante.
I quindici anni di Matteo avevano portato nuovi amici, e i primi amori; trascinò con sè suo fratello malvolentieri, affidandolo a Paolo, un suo coetaneo, mentre si appartava con alcuni ragazzi e ragazze, ansioso di ricucire uno strappo lungo un anno.
Paolo era l'unico tra i suoi amici ad essere figlio di pescatori: era tollerato perchè parlava poco, non avvicinava le ragazze e conosceva le spiagge del paese come nessun altro. Era molto alto, con il fisico atletico e uno sguardo poco sveglio. Peli precoci gli coprivano il petto e le gambe, conferendogli un aspetto adulto che lo rendeva diverso dagli altri ragazzi.
Fabio ammirava Paolo: sembrava un uomo, ed era tra tutti il miglior pescatore di ricci e patelle. Guardava il ragazzo tuffarsi dallo scoglio più alto, con eleganza, ed emergere con conchiglie o sassi nelle mani; immaginava il suo corpo che si inarcava nell'acqua scura, teso nello sforzo di raggiungere il fondo.
Paolo gli si avvicinò, gli chiese se si stesse annoiando. Aveva un accento strano, diverso da quello che gli era familiare. Lasciò cadere distrattamente sul suo telo da mare un frammento di bottiglia verde levigato dal mare, raccolto dal fondale nell'ultima immersione.
Fabio disse che non si annoiava, mentre guardava il riflesso del sole che si rifletteva nel pezzo di vetro; il giovane lo prese per mano, in silenzio. Lo condusse a nuoto verso lo scoglio alto, su cui si arrampicarono entrambi senza difficoltà; gli disse di tuffarsi, bruscamente. Fabio aveva paura, ma non volle deluderlo: deglutì, si tuffò.
L'impatto con l'acqua non fu violento come si aspettava, ma la tensione aveva irrigidito i suoi muscoli. Non riuscì a tenersi a galla, bevve acqua salata; le mani forti di Paolo lo sorressero. Il ragazzo lo portò in spiaggia, al riparo in un anfratto in cui la luce forte del sole filtrava appena, tenue, e gli chiese se avesse avuto paura. Fabio piangeva in silenzio, lo abbracciò; affondò la testa nel suo stomaco piatto, irto di peli come quello di suo padre. E fu strano, e fu bello per lui sentire un calore mai provato prima, che irradiava tra le sue gambe e sferzava, potente e lieve a un tempo, tutto il suo corpo. Non aveva più paura, ma il fiato era mozzo in gola; era in pace.

giovedì 15 ottobre 2009

Principio sì giolivo ben conduce

Aleister Crowley scrive:
alla fine questo blog non condurrà a niente
è cazzo che ce lo leggeremo solo noi
come quei vecchi sposati da una vita che non chiavano, però si leggono lo stesso giornale
tale e quale proprio va a finire