lunedì 7 dicembre 2009

Epistola n° 2, scritta di getto.

A,
abbiamo parlato spesso, conosco le immagini che disegni. E quella sera, il cui ricordo mi segue, ti ho detto qualcosa che penso: la bellezza è mutevole, e si fa goccia d'acqua, ci scivola tra le dita. La bellezza si nasconde agli occhi di chi guarda, li inganna: cercarla, trovarla è operazione laboriosa, complessa, spesso infruttuosa. Puoi scegliere, dunque, di non vederla, in attesa che sia lei, la bellezza, a colpirti con un guanto, a sfidarti a duello, nel deserto delle tue percezioni. Oppure (ed è la via che, a mio avviso, tu imbocchi) ricercarla continuamente in quello che ti circonda.
Questo però, mi dici, ti porta trasformare le persone in stanze buie, in cui ti addentri a tentoni: hai immaginazione e fantasia per dipingere a colori il nero in cui ti immergi, e lo fai istintivamente. Plasmi dunque bellezza dal vuoto e dal buio, con sabbia e tizzoni crei cristalli di vetro, e te ne adorni. E sei felice, perchè brilli alla luce.
Il cristallo però si frantuma, prima o poi cade ai piedi di chi lo possiede e va in pezzi. Le schegge tagliano le mani di chi cerca di raccoglierle, lasciano solchi profondi. E tutto è dolore, perchè il sangue stilla.
A., mi dici che le brutture ti assalgono improvvisamente, che ad un tratto ti prendono per i capelli, ti graffiano la faccia, ti trascinano a terra, nel fango; mi perdonerai se io non credo che sia così. Sono certo che tu afferri quanto di grottesco, di brutto, di volgare e di odioso esista nel mondo, nelle persone. Ma sai capovolgerlo, o capovolgi te stessa, tocchi la sabbia e la muti in cristallo. Il cristallo esiste, c'è perchè sei tu a crearlo e perchè tu vuoi che esista; il cristallo è parte di te. Plasmi dunque le persone a tua immagine, è la bellezza che è in te che diventa la loro bellezza. Quasi nessuno è cristallo, difficilmente le persone brillano: sei circondata da specchi, il cui fulgore è il tuo fulgore.
È per questo che non credo che tu sia sorpresa dalla mediocrità, quando questa ti assale: dall'inizio tu sai che stai mutando la sabbia in cristallo.
È un compromesso, il tuo, che ha un inizio ed un termine naturale, che non può essere alimentato all'infinito. Da qui la sofferenza: ti strappi la benda che hai sugli occhi e riveli a te stessa il tuo inganno, che pesa; è luce, improvvisamente. La luce acceca.

Cosa rimane, dunque, tra le tue mani? I segni dei tagli, il sangue secco, marrone, e poi?
Rimane la capacità straordinaria, che è tua, di creare la bellezza dal nulla. A., stai certa: la bellezza che plasmi con le mani, anche se è fatta di illusione, esiste. Non in sè per sè, certo, ma nell'effetto che questa ha su di te. Che è poi quello che ricerchi. E i problemi nascono e muoiono in te, che hai tutto tra le mani.
Cosa fare, mi chiedi, cosa fare della delusione, delle nausee, di quelli che chiami fallimenti?
Dall'inizio tu sai, come ti dicevo, comprendi il valore reale delle cose: la tua delusione è dunque un male che non esiste, un male che ha radici nel niente.
Un male, A., che però percepisci nitido: è dunque possibile soffrire un male inutile?
È possibile, sì. A patto di essere artisti: è la tua arte a nutrirsi di tormento.
Ho detto tutto, forse.

Epistola n°2 (da camera mia col pigiama, ma scritta ieri in faccia al camino a casa di mia nonna. No, non puzzo di fumo.)






Caro peppe,
quella sera che mi accompagnasti a casa, quella sera, insomma, che volevi schiacciarmi le gocce di pioggia sul cappotto (come mi dicesti poi) parlammo, come quasi sempre, delle percezioni, delle reti attorno al cuore, delle persone,degli occhi.
E ti parlavo, io lo so, io parlo troppo. A volte dovrei trattenermi. Mettere meno voce in gioco, meno fiato, perdere meno pezzi. Dopo le epifanie improvvise, lo vedi, rimango sempre monca. Ma ho una buona struttura fisica, sono forte, dicono. Per cui rimango sempre in piedi, dicono. Come i gatti, pensa. Quindi parlavamo delle persone, delle cose che io faccio con le persone.
E ricordo precisamente che a un certo punto mi hai fermata con i palmi delle mani aperti e mi hai detto: ma forse, non vorrei insistere, eh, ma forse ci pensi che magari le persone...che l'essere umano, che forse ti sbagli, che magari non sono intelligenti come tu vorresti che fossero? Ci pensi che non sono belli come tu vorresti vederli?
E quindi questa tua domanda l'ho recuperata sabato sera dopo le dieci, l'ho riascoltata e me la sono appesa al collo.
Do un peso a tutto, a volte questo peso mi finisce sulle spalle. Io mi stanco.
E mi stanco anche a raccontarle le cose che mi stancano, che mi sfiniscono. Quindi non posso difendermi. NOn lo farò nemmeno adesso e non l'ho mai fatto perchè non sono in grado di muovere per troppo tempo lingua e bocca.
Io non ci sono, non ora. Non per come mi si vede. Non adesso, ecco. Ho un'idea troppo alta dell'umano e dei cuori e degli occhi. A questo punto, vi prego, non mi toccate i fianchi.
Li vorrei tutti puliti, col sapore di sapone.
Vorrei che fossero capaci di salvarsi, ecco.
Poi le cose si vivono, le persone si guardano, le cose si realizzano.
In questo io fallisco perchè non vedo bene.
E non è perchè, come ti chiedevi qualche giorno fa, sono affrettata nei giudizi. è solo la pancia. A volte non ragiono, non mi ascolto bene. Mi rifiuto di vederle quelle cose fastidiose che mi creano disagio e imbarazzo di fronte al mio interlocutore e dico: no, non è niente e così passano gli anni e all'improvviso la bruttura ti salta in faccia, ti rovina il sorriso e non recuperi più niente.
Perchè lo faccio? E perchè non farlo, peppe?
Quella che io ,stracciandomi i vestiti, rincorro è un' immagine ideale della vita. Ma qui attorno a me, lo vedi pure tu, si agita il reale nella sua forma più oscena e io dove posso nascondere la faccia?
Basterà mettermi le mani in tasca e camminare a testa bassa?
è questo che mi stanca.
Questo non riuscire mai per davvero a far entrare nessuno e quando ci riesci (come nel caso di una persona che ha una voce che mi suona splendida e che io e lui ci teniamo lontani perchè poi si muore affogati nelle cose che si sgonfiano, tu vedi che razza di discorsi e dimmelo se non sono veri, tanto non ti crederò, permettimelo)
Io chiudo le porte e mi spavento per il rumore troppo forte.
E mi nauseo, peppe, io mi nauseo ancora per le incoerenze, per le brutture, per come certi corpi si sfasciano, per le tinture, per i trucchi, per la grossolanità di certi gesti, di certi ascolti, per ligabue, per come certe cose avrei potuto prevederle, per la mediocirà, mi nauseo per l'ingenutià che non è ingenuità. L'ingenuità pura è bellissima:è Goethe che chiama la donna ideale Carlotta.
Non chi non riesce a correre per salvarsi. Quello è uno stato di comodo e io mi voglio mettere le mani davanti agli occhi.
Pensaci, pensaci a sta gente che non sa muoversi.
Io per questo fallisco.
Questa è la mia incapacità.
Ma è davvero soltanto mia?
Ecco, questo voglio contestare oggi. E per questo non mi difendo. dai mostri non ci si difende. I mostri si lasciano appassire.
Avevo solo bisogno di dirti che chi nasce tondo non muore quadrato. Solo questo. Poi torno a scrivere altre cose.