giovedì 26 novembre 2009






Il bambino è qui. Fermo, rannicchiato in una teca di vetro. Punta il dito verso nord. Quando lo libero il mio bambino si dirige a grandi passi verso il ripiano della libreria dove ho sistemato Pentothal. è di Paolo Pentothal, gli dico. Lo prende. Lo bava. Lo guardo, è quasi un cane.
Il bambino sono ore che non mi chiede dov'è suo padre mi sembra l'occasione giusta per avvicinarlo a me, alla mia pancia, al mio calore e tagliargli le unghie, sfoltirgli la coda.
Sono tornata, amore, solo per questo.

domenica 15 novembre 2009

L'infermiere sedeva in un angolo, in silenzio. Teneva in mano un brutto orologetto d'argento, probabilmente una vecchia bomboniera coperta di polvere, raccolta dal ripiano della cassettiera. Esaminava l'orologio, rigirandolo tra le mani; prese un fazzoletto di carta dalla tasca del camice, lo spolverò, lo posò al suo posto, accanto alla cornice.
L'odore di crema per le mani e vecchio legno che si respirava nella stanza gli era familiare, era ormai quasi un mese che frequentava quella casa. La vecchia era in coma, senza speranza, ma la sua famiglia si ostinava a pagarlo profumatamente per cambiarle ogni giorno le medicazioni alla testa. Aveva subito un intervento al cervello, le era stato rimosso un tumore. Grosso come una palla da tennis, gli aveva raccontato l'ingegnere, il marito dell'unica figlia della donna.
La stanza era in penombra; attraverso le ante socchiuse un filo di luce si faceva strada, colpiva la sacca della flebo creando riflessi di una strana iridescenza. La vecchia, coperta da un lenzuolo leggero, aveva il naso aquilino, e radi capelli scuri.
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Anche i capelli di sua figlia erano radi e scuri; sua moglie aveva partorito pochi mesi prima. Alla vista della bambina, subito dopo il bagnetto, l'infermiere si era sorpreso di quanto un neonato potesse essere brutto, orrendo. Non comprendeva l'estasi di sua madre e di sua suocera, nè la gioia che irradiava dagli occhi di sua moglie: quell'esserino insignificante che reggeva tra le mani, impacciato, lo disgustava. Le piccole mani, su cui risaltavano evidenti le vene azzurrine, artigliavano il crocifisso d'oro che portava al collo, ricordo della prima comunione; la piccola urlava, sembrava comprendere i suoi sentimenti, lucidamente. Si sorprese a riflettere su quanto facile potesse essere, per lui, schiacciare discretamente la testolina olivastra contro il muro, ridurla ad una poltiglia sanguinolenta. L'infermiere era rimasto atterrito da quei pensieri, dall'idea della paternità. I giorni, però, avevano mutato quelle prime confuse emozioni in un senso di responsabilità feroce nei confronti della bimba. Questo doveva essere l'amore paterno, aveva dedotto. E aveva amato sua figlia così, responsabilmente.
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L'infermiere si alzò, si avvicinò al letto. Sistemò l'ago nella vena della vecchia, sul polso ossuto; aveva grosse mani, con le nocche irte di piccoli peli scuri, e le unghie rose. Mani stranamente delicate, rispettose del male. L'infermiere era forte, e ancora giovane a dispetto della precoce stempiatura; sbadigliò, doveva andare a casa.
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Il lutto è rumoroso, la morte è silenziosa. Prima di entrare piano nella stanza, Enrica si sfilò le scarpe scure ed eleganti, sapientemente abbinate al tailleur grigio, e indossò un vecchio paio di ciabatte da mercatino. Nella penombra, la colpì il raggio di sole che entrava dalla finestra, illuminando di riflessi metallici la sacca della flebo. Quella luce le parve sconveniente, nella stanza di un moribondo; accostò piano le ante di legno e accese l'abat jour sul comodino. L'ombra che l'infermiere, intento a riporre i suoi strumenti nella borsa, proiettava contro il muro, si ingigantì improvvisamente.
Sedette sul pavimento, accanto al letto; prese la mano inerte di sua madre, la strinse con forza.
Il dito indice della donna morente era completamente rigido, a differenza delle altre dita, che potevano piegarsi normalmente. Da bambina, portando sul capo un vaso di vetro, era infatti inciampata, e nella caduta si era tagliata profondamente la mano con una scheggia appuntita. Un medico di paese aveva sottovalutato l'incidente, non avvedendosi dell'avvenuta rottura di uno dei tendini della bambina; così il dito le era rimasto offeso, e si era in seguito atrofizzato. Era un dito da pianista, sottile ed affusolato, che contrastava con la ruvidezza contadina della mano; quando la donna impastava l'acqua con le uova e la farina, il suo dito indice rimaneva sollevato, rigido, senza sporcarsi; sembrava indicare Enrica che guardava attenta, rapita dalla perizia culinaria di sua madre.
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Enrica aspettava che sua madre morisse. Sapeva che sarebbe stata sollevata, quando questo fosse accaduto; era un medico, comprendeva il dolore di un ammalato. Enrica attendeva, con l'ansia sottile ed impotente di chi aspetta un autobus in ritardo. Desiderava oltre ogni cosa che il suo strazio finisse; quasi inconsapevolmente, arrivava ad augurarsi la morte di sua madre. La sofferenza per una perdita è attenuata dalla rassegnazione, ma l'infinito dilatarsi di quegli ultimi rantoli liquefaceva quella morte, che le stillava in bocca lenta e acre, goccia dopo goccia. Enrica era costretta a pregare per un miracolo che, lo sapeva, non sarebbe avvenuto.
Doverosamente, si era aggrappata alla speranza, come a fili d'erba secca; ogni giorno metteva in scena la speranza, trascorreva ore seduta ai piedi del letto di sua madre ad ascoltare il rumore dei suoi respiri. Ormai quella stanza le era insopportabile, quell'odore di mobili vecchi e crema Nivea la disgustava. Continuava a rimanere al capezzale della donna morente, stoicamente, perchè era quello che le persone che la circondavano, e la compativano, si aspettavano da lei.
Durante i pomeriggi trascorsi nel buio, stringendo quelle mani fredde, Enrica aveva immaginato il suo lutto per la morte della madre. I vestiti sobri, il nero portato con dignità, il funerale discreto, nella stessa chiesetta che sua madre aveva frequentato per tanti anni, in prima fila accanto a suo marito, il cordoglio sincero dei parenti. Enrica sarebbe stata il centro della solidarietà, si sarebbe immersa nel mare di melassa del compatimento. Si sarebbe nutrita di pietà, barattando il dolore con l'affetto delle persone a lei care, scambiando la morte con la vita, credeva. Si sarebbe aggrappata alla vita con forza, Enrica, e al tempo che passa e si scioglie come il ghiaccio.
Forse avrebbe cercato di avere un bambino, magari una bambina a cui imporre il nome di sua madre.
Sicuramente avrebbe lasciato Mauro, il giovane internista con cui da circa un anno aveva una relazione, e che adesso la stava aspettando a casa sua.
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Mauro si era fatto una doccia, ed era rimasto in accappatoio. Era un uomo di aspetto gradevole, nonostante la pancia un po' troppo prominente. Enrica, la collega con cui aveva una relazione, era in procinto di arrivare. Era al capezzale di sua madre morente; aveva un cancro, credeva.
A suo modo, Mauro voleva bene ad Enrica. Era una brava donna, ancora piacente nonostante avesse già superato la quarantina, e un valido medico. Soprattutto, era un'amante fantasiosa e discreta. Nessuno dei colleghi e degli infermieri che lavoravano presso il loro ospedale sospettava che avessero una relazione; questo era essenziale per un giovane brillante, che di lì a qualche anno avrebbe concorso per la carica di primario, forte dell'appoggio di alcuni consiglieri regionali.
Si guardava allo specchio con intensità, gonfiò i bicipiti; era indeciso se radersi o no la barba. Decise che si piaceva. Alla radice del naso aveva un capillare evidente, rosso scuro.
Suonò il citofono, Mauro aprì il portone. Era Enrica.
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Erano a letto, bagnati del sudore di Mauro. Il cellulare di Enrica squillò; era lontano, perso nella borsa dimenticata da qualche parte in salotto. Non si alzò per rispondere, chiuse gli occhi; era nuda e appagata. E sapeva, non voleva sapere.

martedì 10 novembre 2009

Epistola N° 1, senza scopo nè fantasia

A.,
sono qui, devo ancora disfare i bagagli. Ho sonno, e non credo di stare realmente male; so che adesso mi piacerebbe schiacciare con le dita le gocce di pioggia contro il tessuto del tuo cappotto nero.
Quando mi parli non ti guardo negli occhi: di solito fisso la tua bocca, le labbra che si schiudono e mostrano i denti. Guardo le mani che si muovono, che comunicano chiaramente ciò che tu vuoi dirmi, o rivogo lo sguardo in avanti, con gli occhi fissi.
Ieri sera guardavo attraverso il vetro appannato, tu no. Tu guardavi me. Mi descrivevi la forza che ho, la tua debolezza. La foza di praticare un distacco terapeutico, di sgranare la vita come un melograno maturo, senza sporcarmi mai. La forza di unire puntini luminosi con la punta in grafite di una matita, con tanta calma, senza dolore. La forza di non ricominciare perchè forse non si è mai iniziato veramente.
A. (non ti scrivo "cara A.", per una forma infantile di pudore, o forse perchè la simbiosi di quest'ultimo periodo ti rende, nello scuro che è mio, non cara, ma splendidamente immotivata, intensa, inattesa e per questo più importante), questa non è forza d'animo.
La forza sta nella ricerca continua, nel tentativo, nelle braccia dischiuse e nella pioggia che in questi due giorni ci ha visti camminare, parlare. La forza che, realizzo adesso, è riuscita a tracimare dai suoi argini, a portare anche me con i suoi detriti, il fango denso e le foglie con cui anni fa giocavo in giardino. La forza che hai ti ha permesso di costruire un rapporto, e poi coinvolgere me, bendarmi con un filo di seta sottile e farmi girare veloce, fino a cadere e ridere, illudendomi forse di star ridendo insieme a te. E sono tuo amico, provo un affetto facile ed insolito adesso, un affetto bianco e azzurro pastello. Mi specchio in te, disegno nell'aria quello che mi racconti, con tratto a volte sicuro.
Ci sei tu, è vero. E ci siamo tutti, al di là delle facili accuse con cui qualcuno ti seppellisce. Ma il tuo mondo non si esaurisce in te, questo è evidente. Risulta evidente dalle tue domande, che si legano l'una all'altra e diventano risposte al tuo interrogarti sulle persone che ti circondano. Ti farai male, ed io no: ma si cresce attraverso il dolore, la stasi porta a rigirarsi su sè stessi come i lombrichi infilati sugli ami e poi lanciati in acqua. È semplice essere un lombrico, nuotare restando aggrappati ad un filo; tu sei complicata e completa, nella tua indefinitezza sei un tramonto rosso e rosa, e come tale ti spegni e ti riaccendi, incanti.
Saliamo su di una cima, ci sediamo; mi sporco, mi sbuccio un po' il ginocchio e mi lamento. Guardiamo in avanti, non nella stessa direzione però. Esisti, perchè è così e perchè io voglio che sia così. Del resto non m'importa, anche se credo che importi a te. I capelli ti coprono l'occhio sinistro.
Parliamo, viviamo un po'. Basta così.

domenica 8 novembre 2009

Epistola n°1










Caro Peppe,
sono qui al corso di filosofia del linguaggio e seguo il tutto molto distratta. oggi è il mio primo giorno di università, ma mi sono svegliata tardi, pertanto considero anche questo giorno come un fallimento del mio progetto di rieducazione di me stessa. Comincerò quindi domani. Dunque rettifico: oggi non è il mio primo giorno di università, oggi non è niente. oggi è solo un giorno che piove.
Ieri, ma come anche l'altro ieri ( che poi non lo so collocare precisamente in una data stabile che ci dica qualcosa) parlavamo della gente, della percezione.
Ti dicevo di un pensiero, di una considerazione, di un giudizio sulla mia persona che è arrivato come una scarica di grandine sulla mia schiena nuda e magra. Ma è effettivamente magra la mia schiena? Posso dirlo io da sola? Chi potrà confermare questa mia valutazione?
Caro Peppe,
sono anche un pò stanca e poi io non lo so più come funzionano le cose, i fatti, gli eventi, le persone. Sono tutte cose. puoi prenderle, mettertele in bocca, bavarci sopra, toccarle, sentirne il sapore, perderle. Puoi perderle, le cose.
E qui attorno a me (ma poi ci pensi che sto scrivendo su un quadernone e dopo quando tornerò a casa,riscriverò tutto sul blog affinchè tu lo legga, affinchè tutto si perda?) qui le persone parlano. ogni tanto mi arriva in faccia lo sputo di una parola che non capisco, di nomi che non mi appartengono che mi dicono solo: qui non è niente, non è ancora niente.
Io non credo che la vita scorra, io credo nei singhiozzi del momento, nei singulti e nei riverberi che continuano. nelle stanze che tremano, nella letteratura che non significa niente.
Io dico un sacco di volte io, lo so. Ma qui mi sembra che ci sia solo questo io e non significa che io sia concentrata solo su me stessa, che io guardi solo me. Ma hai idea di quanto poi pesino queste parole sui cuori, sulle spalle, sulla pancia?
Io ci sono, no? tu pure, mi pare e chiunque altro, anche se poi c'è chi crede il contrario e si tira le coperte fino alla testa per non vederlo il buio quando la madre entra un attimo in camera e dice buonanotte, amore e poi chiude la porta con un tonfo che fa tintinnare i denti. E quindi se ti metti le mani tutte e due sulla pancia, senti quel gorgoglio di vita che a volte fa paura. fa paura il pensiero: ma che c'è dentro? E quanti mostri si muovono simultaneamente?
Ci pensi mai? Ci pensi, dico, alla gente, a quanti le mani sulla pancia non le poggiano mai?
E lasciamo stare, per cortesia, le madri e i gigli e le canzoni degli stadio che partono dal mio materasso la notte sul tardi ed è in quel preciso istante che io comincio a tremare. E sono ancora capace di fare dell'ironia.
Quindi, tralasciamo per un secondo anche le citazioni da De Andrè che le recupereremo poi.
Per il momento, ecco, facciamo conto che si salga su una cima, ci si metta seduti scomodi.
E si guardi poi da qualche parte.
Mi pare che io esisto nella misura in cui il vento ha ancora la forza di graffiarmi la faccia.
Come al solito non ho detto niente perchè da giorni, lo sai, non ho fame.
E questo è quanto.
me ne vado, apro l'ombrello.
Semplicemente ho sulla faccia la bombetta di Charlot perchè nemmeno oggi ci volevo essere.
E dico sempre le stesse cose, ma la notte continua a piacermi, le telefonate, la sua voce lontana che mi sa di vendemmia e bambini coi piedi nel mosto.
Sono quelli i momenti in cui mi sento viva e m'addormento poi.
Domani.
ora oggi, delle cose, per cortesia, peppe, parliamone.

martedì 3 novembre 2009

Cipolle/distrazioni








Quindi le cose vederle, soffiarci dentro da un punto troppo in alto, descriverle a un cieco, guardarle da lontano, sai bene che non è poca cosa, ma nemmeno è facile respiare così. Lei è molto più forte. Lei è molto meglio.
Non voglio sorprenderti con le mani nella marmellata, ma auspico a qualcosa di simile, qualcosa che non ci piacerà raccontare in giro e di cui potremo ridere solo io e te quel giorno che deciderai di chiudere la porta e prenderti le mie scarpe per lucidarle, trattarle con cura. Sai bene che da sola non sono capace di poggiare i piedi a terra.