domenica 15 novembre 2009

L'infermiere sedeva in un angolo, in silenzio. Teneva in mano un brutto orologetto d'argento, probabilmente una vecchia bomboniera coperta di polvere, raccolta dal ripiano della cassettiera. Esaminava l'orologio, rigirandolo tra le mani; prese un fazzoletto di carta dalla tasca del camice, lo spolverò, lo posò al suo posto, accanto alla cornice.
L'odore di crema per le mani e vecchio legno che si respirava nella stanza gli era familiare, era ormai quasi un mese che frequentava quella casa. La vecchia era in coma, senza speranza, ma la sua famiglia si ostinava a pagarlo profumatamente per cambiarle ogni giorno le medicazioni alla testa. Aveva subito un intervento al cervello, le era stato rimosso un tumore. Grosso come una palla da tennis, gli aveva raccontato l'ingegnere, il marito dell'unica figlia della donna.
La stanza era in penombra; attraverso le ante socchiuse un filo di luce si faceva strada, colpiva la sacca della flebo creando riflessi di una strana iridescenza. La vecchia, coperta da un lenzuolo leggero, aveva il naso aquilino, e radi capelli scuri.
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Anche i capelli di sua figlia erano radi e scuri; sua moglie aveva partorito pochi mesi prima. Alla vista della bambina, subito dopo il bagnetto, l'infermiere si era sorpreso di quanto un neonato potesse essere brutto, orrendo. Non comprendeva l'estasi di sua madre e di sua suocera, nè la gioia che irradiava dagli occhi di sua moglie: quell'esserino insignificante che reggeva tra le mani, impacciato, lo disgustava. Le piccole mani, su cui risaltavano evidenti le vene azzurrine, artigliavano il crocifisso d'oro che portava al collo, ricordo della prima comunione; la piccola urlava, sembrava comprendere i suoi sentimenti, lucidamente. Si sorprese a riflettere su quanto facile potesse essere, per lui, schiacciare discretamente la testolina olivastra contro il muro, ridurla ad una poltiglia sanguinolenta. L'infermiere era rimasto atterrito da quei pensieri, dall'idea della paternità. I giorni, però, avevano mutato quelle prime confuse emozioni in un senso di responsabilità feroce nei confronti della bimba. Questo doveva essere l'amore paterno, aveva dedotto. E aveva amato sua figlia così, responsabilmente.
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L'infermiere si alzò, si avvicinò al letto. Sistemò l'ago nella vena della vecchia, sul polso ossuto; aveva grosse mani, con le nocche irte di piccoli peli scuri, e le unghie rose. Mani stranamente delicate, rispettose del male. L'infermiere era forte, e ancora giovane a dispetto della precoce stempiatura; sbadigliò, doveva andare a casa.
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Il lutto è rumoroso, la morte è silenziosa. Prima di entrare piano nella stanza, Enrica si sfilò le scarpe scure ed eleganti, sapientemente abbinate al tailleur grigio, e indossò un vecchio paio di ciabatte da mercatino. Nella penombra, la colpì il raggio di sole che entrava dalla finestra, illuminando di riflessi metallici la sacca della flebo. Quella luce le parve sconveniente, nella stanza di un moribondo; accostò piano le ante di legno e accese l'abat jour sul comodino. L'ombra che l'infermiere, intento a riporre i suoi strumenti nella borsa, proiettava contro il muro, si ingigantì improvvisamente.
Sedette sul pavimento, accanto al letto; prese la mano inerte di sua madre, la strinse con forza.
Il dito indice della donna morente era completamente rigido, a differenza delle altre dita, che potevano piegarsi normalmente. Da bambina, portando sul capo un vaso di vetro, era infatti inciampata, e nella caduta si era tagliata profondamente la mano con una scheggia appuntita. Un medico di paese aveva sottovalutato l'incidente, non avvedendosi dell'avvenuta rottura di uno dei tendini della bambina; così il dito le era rimasto offeso, e si era in seguito atrofizzato. Era un dito da pianista, sottile ed affusolato, che contrastava con la ruvidezza contadina della mano; quando la donna impastava l'acqua con le uova e la farina, il suo dito indice rimaneva sollevato, rigido, senza sporcarsi; sembrava indicare Enrica che guardava attenta, rapita dalla perizia culinaria di sua madre.
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Enrica aspettava che sua madre morisse. Sapeva che sarebbe stata sollevata, quando questo fosse accaduto; era un medico, comprendeva il dolore di un ammalato. Enrica attendeva, con l'ansia sottile ed impotente di chi aspetta un autobus in ritardo. Desiderava oltre ogni cosa che il suo strazio finisse; quasi inconsapevolmente, arrivava ad augurarsi la morte di sua madre. La sofferenza per una perdita è attenuata dalla rassegnazione, ma l'infinito dilatarsi di quegli ultimi rantoli liquefaceva quella morte, che le stillava in bocca lenta e acre, goccia dopo goccia. Enrica era costretta a pregare per un miracolo che, lo sapeva, non sarebbe avvenuto.
Doverosamente, si era aggrappata alla speranza, come a fili d'erba secca; ogni giorno metteva in scena la speranza, trascorreva ore seduta ai piedi del letto di sua madre ad ascoltare il rumore dei suoi respiri. Ormai quella stanza le era insopportabile, quell'odore di mobili vecchi e crema Nivea la disgustava. Continuava a rimanere al capezzale della donna morente, stoicamente, perchè era quello che le persone che la circondavano, e la compativano, si aspettavano da lei.
Durante i pomeriggi trascorsi nel buio, stringendo quelle mani fredde, Enrica aveva immaginato il suo lutto per la morte della madre. I vestiti sobri, il nero portato con dignità, il funerale discreto, nella stessa chiesetta che sua madre aveva frequentato per tanti anni, in prima fila accanto a suo marito, il cordoglio sincero dei parenti. Enrica sarebbe stata il centro della solidarietà, si sarebbe immersa nel mare di melassa del compatimento. Si sarebbe nutrita di pietà, barattando il dolore con l'affetto delle persone a lei care, scambiando la morte con la vita, credeva. Si sarebbe aggrappata alla vita con forza, Enrica, e al tempo che passa e si scioglie come il ghiaccio.
Forse avrebbe cercato di avere un bambino, magari una bambina a cui imporre il nome di sua madre.
Sicuramente avrebbe lasciato Mauro, il giovane internista con cui da circa un anno aveva una relazione, e che adesso la stava aspettando a casa sua.
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Mauro si era fatto una doccia, ed era rimasto in accappatoio. Era un uomo di aspetto gradevole, nonostante la pancia un po' troppo prominente. Enrica, la collega con cui aveva una relazione, era in procinto di arrivare. Era al capezzale di sua madre morente; aveva un cancro, credeva.
A suo modo, Mauro voleva bene ad Enrica. Era una brava donna, ancora piacente nonostante avesse già superato la quarantina, e un valido medico. Soprattutto, era un'amante fantasiosa e discreta. Nessuno dei colleghi e degli infermieri che lavoravano presso il loro ospedale sospettava che avessero una relazione; questo era essenziale per un giovane brillante, che di lì a qualche anno avrebbe concorso per la carica di primario, forte dell'appoggio di alcuni consiglieri regionali.
Si guardava allo specchio con intensità, gonfiò i bicipiti; era indeciso se radersi o no la barba. Decise che si piaceva. Alla radice del naso aveva un capillare evidente, rosso scuro.
Suonò il citofono, Mauro aprì il portone. Era Enrica.
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Erano a letto, bagnati del sudore di Mauro. Il cellulare di Enrica squillò; era lontano, perso nella borsa dimenticata da qualche parte in salotto. Non si alzò per rispondere, chiuse gli occhi; era nuda e appagata. E sapeva, non voleva sapere.

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